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Erice e le città fantasma

Erice - veduta

Erice - veduta

Alle spalle della vivace città di Trapani, si erge una collina rocciosa che raggiunge e supera quota 700m. La stretta strada che sale ripida per una dozzina di chilometri, mette a dura prova il motore dell’opel corsa nera dal tetto bruciacchiato che abbiamo in dotazione. Probabilmente i 160 mila chilometri che leggiamo sul contachilometri, si fanno sentire; ma proprio quando la lancetta del termostato sta per toccare la “zona rossa” del quadrante, arriviamo alle porte di Erice.

Il borgo medioevale (ma già abitato nell’antichità) giace placido su questa aspra collina. In questi giorni di fine maggio il turismo è praticamente assente, e bighellonare a piedi scalzi per le irte viuzze lastricate ora con  acciottolato irregolare ricavato da pietre arrotondate ora da lunghe pietre piatte e ciottoli, è qualche cosa di speciale.

Saliamo così, un po’ alla cieca, osservando divertiti le vivaci targhette in porcellana decorata  che si trovano su ogni portone, compreso quello della stazione dei carabinieri, e respirando a pieni polmoni l’aria sottile e fresca. Ammiriamo patii e giardini interni fioriti e curatissimi e ci soffermiamo a fare qualche foto alle, anche qui, innumerevoli chiese (qualcuna eretta dal sempre presente conte Ruggero). Arrivati in cima entriamo in un giardino a terrazze sulla cui sommità si erge, proprio in cima alla collina, il castello di Venere le cui torri candide poggiano le fondamenta ai bordi di una profonda scarpata e svettano nel cielo azzurro. Ai piedi del castello il belvedere è uno di quei spettacoli che non ti aspetti: sotto di noi, la Sicilia.

Lo sguardo abbraccia la costa da Custonaci a San Vito lo Capo, e la sensazione che si ha in una giornata così limpida e tersa, è quella di essere un marinaio sulla coffa di un alto, altissimo albero maestro. Da mozzare il fiato.

Restiamo così, rapiti dal panorama per una mezz’oretta, consumando il pranzo al sacco d’ordinanza: pane e salame.

Ridiscendendo notiamo come la Sicilia abbia il potere di riempirti gli occhi: ogni curva è una sorpresa, ogni strada imboccata ha qualche cosa da offrirti e da farti scoprire. Lo notiamo ulteriormente in questa stessa giornata quando, sbagliando strada, ci perdiamo nell’entroterra occidentale siculo, tra Segesta e Mazara. Imbocchiamo una via secondaria, probabilmente una strada provinciale: attorno a noi scorrono prima paesaggi aspri e collinosi, costellati da paesi che si aggrappano ai fianchi dei rilievi sorgendo da macchie boschive di un verde vivace e brillante; poi i declivi si fanno più dolci ma senza perdere la loro imponenza. Qui, a perdita d’occhio, si alternano immensi campi di ulivi, di vite e di grano. Mai, durante questo viaggio quasi sospeso nel tempo, incrociamo una macchina: solo qualche trattore guidato da un contadino dalla pelle scurita dal sole, ci fa capire che siamo ancora nel XXI secolo. Approssimandoci a Mazara le colline vanno digradando e, negli ultimi 10 chilometri prima di raggiungerla, veniamo accompagnati nel nostro viaggio da una selva di mulini per l’energia eolica. Il futuro, qui, tocca il passato e con lui si fonde.

Siamo di nuovo nella città che ci fa da base: alla pace della campagna sicula si sostituisce il caos della viabilità cittadina. Ma abbiamo riempito gli occhi fino quasi a saziarli…per oggi.

Poggioreale - ruderi

Poggioreale - ruderi

Il giorno successivo avremmo voluto dedicarlo al cazzeggio da spiaggia. Sperimentiamo la vicina spiaggia di Porto Palo di Menfi, invasa da surfers con l’aquilone e, come molte altre spiagge meridionali della Sicilia, dagli scarabei. Dopo un paio d’ore, però, un po’ perchè perseguitati da un fastidioso vento freddo, un po’ perchè annoiati, decidiamo di seguire il consiglio della nostra guida che segnala i “ruderi di Gibellina”, paese distrutto dal terribile terremoto del 1968.

Ci incamminiamo così verso la nostra nuova meta, percorrendo una cinquantina di chilometri tra colture di ulivi, vite, grano e pomodori, in un saliscendi di colline che si fanno sempre più aspre imponenti e rocciose.

Al posto di Gibellina già da lontano si scorge, sul fianco di una collina, un’imponente colata di cemento opera di Alberto Burri: occupa lo spazio che, prima del ‘968, vedeva sorgere il paese. E’ formata da imponenti basamenti di cemento, intercalati da stretti sentieri in salita: seguendoli si arriva in cima alla collina e con lo sguardo si abbraccia la valle del Belice, costellata da ruderi che, da allora, sono rimasti come subito dopo il terremoto, a testimonianza del dramma vissuto da quelle terre.

Dopo una breve sosta al monumento, risaliamo in macchina, seguendo la strada che serpeggia per la valle percorrendola lentamente, osservando gli scheletri delle case colpite dal sisma. Ad un certo punto notiamo un’indicazione: “ruderi di Poggioreale”. La guida non li cita ma decidiamo comunque di raggiungerli. E qui la sorpresa: parcheggiata la macchina in un ampio piazzale, ci troviamo di fronte ad un cancello; dietro di esso il paese, esattamente come doveva essere il giorno dopo il terremoto (eccezion fatta per la vegetazione che, negli anni, ha riconquistato i suoi spazi).

Oltrepassiamo il cancello in silenzio, gli occhi sgranati dallo stupore; percorriamo la via principale che taglia in due la cittadina fino alla piazza centrale. Attorno a noi abitazioni, chiese, la scuola con la sua biblioteca, il comune, piccole fabbriche con i macchinari ancora intatti, il pronto soccorso ed il teatro. Dove possibile entriamo a visitare gli ambienti un tempo teatro di storie, passioni, rancori, amore ed amicizie. Dentro la scuola troviamo ancora documenti contabili e liste di nomi. Nella piazza centrale, sulla sinistra, una lunga scalinata conduce a quella che doveva essere la chiesa votata al santo protettore del paese: rimane in piedi il campanile e, tra i detriti, lo scheletro di qualche colonna e di qualche arco sui quali si scorge ancora il colore di un affresco. Sotto, il paese, con i suoi tetti rossi sfondati, i suoi palazzi sventrati; ed il silenzio, che domina la valle.

Passa un ora, due ore, in cui ci sentiamo sospesi nel tempo, quasi prigionieri di una fotografia ingiallita. Notiamo come un posto del genere dovrebbe essere visitato obbligatoriamente da politici e palazzinari; da tutta la gente responsabile di costruire con la sabbia su zone terremotate.

Ci allontaniamo stupiti e sgomenti, imboccando una strada a caso tra le colline: non sappiamo più dove siamo quando incrociamo un pastore con il suo gregge, il volto scavato dalle rughe e la pelle scurita dal sole, a cui chiediamo informazioni. Gentilissimo e sorridente ci dà le informazioni di cui abbiamo bisogno. Poi iniziamo a parlare, gli raccontiamo della nostra visita ai ruderi e lui, con gli occhi velati al ricordo di quel giorno, il giorno del terremoto a Poggioreale, ci racconta la sua esperienza; era una domenica, dopo la messa ci si era messi a tavola quando arrivò la prima scossa. Tutti gli abitanti del paese scapparono ed alla notte, il paese crollò rimanendo come lo avevamo visto noi. Ancora un brivido a quel racconto ed un saluto caloroso per tornare sulla strada verso quella che, ancora per una decina di giorni, chiameremo  casa.

Mazara del Vallo e Selinunte

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Selinunte: cinquino siculo

 

Dopo il nostro accomodamento nell’ampio appartamento che, a suo tempo, ospitava una numerosissima famiglia con più di dieci componenti, decidiamo di scendere a piedi nel vicino centro di Mazara per esplorarne strade e vicoli, guida alla mano, per coglierne la storia ed intuirne gli aspetti sociali ed umani che la caratterizzano.

Con circa 50000 abitanti (di cui 10000 tunisini), Mazara si trova ad una settantina di chilometri a sud-est di Trapani, è divisa in due dal fiume Mazaro e si affaccia sul Mediterraneo che, idealmente, la congiunge all’Africa. Il centro si trova sulla sponda sinistra del fiume, la cui foce è anche porto per un gran numero di barche da pesca, ed è formato da un agglomerato di case basse dall’aspetto trasandato, vicoli stretti e piccole ed eleganti chiese, spesso costruite dai Normanni su moschee, ereditate dalla dominazione araba. Particolare il quartiere tunisino, dall’aspetto trasandato e decadente, con case basse e quadrate, spesso diroccate, e con piccoli e ben curati giardini interni.

In tutta la città aleggia un odore di pesce misto a quello del catrame e del sale. In molti punti, poi, l’odore di immondizia prevale su tutto: è quasi impossibile trovare un bottino e gli abitanti hanno l’abitudine di abbandonare i rifiuti lungo le strade o appesi a ganci che penzolano dai balconi.

Durante la nostra permanenza, la città è in piena campagna elettorale: ai primi di giugno si voterà per il sindaco. C’è la curiosa usanza dei vari comitati che sostengono i diversi candidati, di affittare delle stanze lungo le vie principali della città dove i concorrenti alle cariche comunali hanno l’abitudine, nelle fresche e ventilate serate mazaresi, di sostare per incontrare i cittadini. Rientrando da una delle nostre uscite fuoriporta poi, ci è capitato di avere un comizio di un candidato sindaco proprio sotto il balcone di casa.

Per curiosità abbiamo sfogliato più di qualche programma elettorale: vicino alla solita aria fritta tipica della politica italiana, non siamo riusciti a trovare nessun accenno al problema dell’immondizia. Chiederemo…sperando di non imbatterci in qualche lupara 😛

Nei primi giorni del nostro soggiorno siciliano, il tempo si è mantenuto stabilmente variabile: questo non ci ha impedito di visitare più di qualche spiaggia e di concederci qualche nuotata tonificante. La spiaggia di grossolana sabbia bianca di Mazara, la Tonnarella, a fine maggio si presentava piuttosto sporca, con grossi cumuli di alghe e con i pochi stabilimenti ancora in preparazione. Percorrendo la dissestata strada costiera ci imbattiamo poi, in una delle leggendarie “cattedrali nel deserto”: una strada sopraelevata che, dopo aver serpeggiato chissà per quanti chilometri nell’entroterra, si interrompe bruscamente proprio davanti al mare. Innumerevoli saranno, nel corso del nostro viaggio, le testimonianze dell’abusivismo selvaggio e dello spreco più impressionante, con relitti di strade ed abitazioni a deturpare anche splendidi scorci o incantevoli spiagge di sabbia bianca.

La storia della Sicilia, è storia che parte da lontano, da quella cultura greca che tanto ha dato all’occidente e che qui, per secoli, è stata protagonista.

Prima meta culturale del nostro viaggio sarà il sito archeologico di Selinunte che fu una delle principali città greche. Prima di visitare le due colline che ospitavano l’importante città ci rechiamo, percorrendo la splendida strada costiera che da Mazara corre verso est per poi tuffarsi nell’interno, tra colline coltivate a ulivi e vite, alle “cave di Cusa”. Qui gli operai e gli architetti ellenici, ricavavano il tufo con il quale costruire case e templi della città fortificata. Arriviamo con il sole che ha da un po’ superato il suo zenit e ci tuffiamo nell’atmosfera magica del posto: tra l’erba dorata, ulivi e querce secolari, serpeggia il sentiero che corre sotto la cava. Sparse nell’ampio spazio sottostante il costone di roccia, imponenti porzioni di colonne e di capitelli giacciono abbandonate, come se il giorno prima, chi le stava modellando, avesse interrotto il suo lavoro.

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Selinunte - tempio di Era: scorcio

La città di Selinunte, che vide i suoi massimi fulgori intorno al VII secolo a.C. si estende su due colline attigue. Sulla prima si può ammirare uno splendido tempio (il tempio di Era) le cui possenti colonne color ambra, dominano la valle sottostante mentre diversi ruderi di quello che doveva essere il più grande tempio dell’antichità (visto che, si stima, fosse tre volte più grande del Partenone), giacciono ammassati a fianco di questo splendido manufatto, ricostruito negli anni ’60 del secolo scorso. Visitati questi resti, ci si incammina per quasi un chilometro scendendo lungo il fianco della prima collina per poi risalire sulla seconda, per raggiungere l’acropoli che già da lontano si rivela in tutta la sua imponenza. Le possenti mura fanno da contenitore ai resti di innumerevoli abitazioni, templi (tutti contrassegnati da lettere dell’alfabeto, visto che il tempo ha cancellato il ricordo degli dei a cui erano dedicati), e a tutto quello che poteva esistere in una città che, si stima, raggiungeva gli 80000 abitanti.

Una volta fatto il giro delle mura ci accorgiamo che, scendendo lungo la parete occidentale della seconda collina, si arriva ad una splendida, estesa spiaggia di sabbia rossa completamente deserta. La discesa non è difficile ma un vicino fiume forma una specie di laguna e, per raggiungere la spiaggia sul lato del mare, dobbiamo guadare un piccolo specchio d’acqua per raggiungere un istmo della costa sabbiosa. In questa impresa, la mia compagna si avvicina un po’ troppo al bordo che costeggia la laguna, affondando completamente una gamba nelle sabbie mobili. Niente di grave, una bella risata e siamo già stesi sulla sabbia di questa splendida spiaggia, nudi, a pigliare il sole dopo un bagno rinfrescante.

Con calma così e ripercorrendo in senso inverso la strada tra le rovine rientriamo, già progettando le prossime tappe del nostro viaggio.

Nota: l’entrata nel sito archeologico costa sei euro. Durante la nostra camminata ci rendiamo conto che, almeno per la prima collina, c’è la possibilità di entrare gratuitamente. Sulla strada che porta alla seconda collina, si apre un sentiero, con una zona adibita a pic-nic incustodita. All’entrata della seconda collina, nessuno ci ha chiesto il biglietto, ma questo deve dipendere dalla stagione e dalla bassa affluenza. Teoricamente, comunque, l’entrata di straforo si potrebbe fare dalla spiaggia segnalata poco più sopra anche se non so da dove raggiungerla se non dal sito stesso.

 

Mazara del Vallo

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Cattedrale di Mazara: il conte Ruggero calpesta un saraceno con il suo cavallo

Dopo un breve volo da Bologna con quelli della Ryanair, buchiamo le nubi che fanno da tetto a Trapani e, non senza qualche scossone, atterriamo all’aeroporto di Birgi.

Per me, è la prima volta nel mezzogiorno profondo; non così per la mia compagna di viaggio, e di vita, che qui ha più di qualche legame familiare. Ci sediamo all’esterno dell’aeroporto, in attesa dello “zio Lusciano” che ci accompagnerà nella natia Mazara del Vallo, ad una settantina di chilometri da Trapani, dove ci accomoderemo nella casa della sua defunta madre e dove stabiliremo il nostro campo base per esplorare l’isola del sole.

Lo zio Luciano arriva accompagnato da un amico, con cui scambierà battute in siciliano stretto per tutto il viaggio. Ci introduce un po’ quello che ci aspetterà sfatando alcuni miti per chi, polentone come me, si porta impressi nell’immaginario. Il primo a cadere è quello dei conducenti di motorini senza casco: oramai da un anno lo portano (quasi) tutti; questo perché, qualche tempo prima, le istituzioni hanno dato una stretta all’usanza di non indossarlo, rottamando forzatamente i mezzi di coloro che venivano sorpresi senza. Altro mito che cade è quello del rigoglio delle palme: oramai da un anno e mezzo è sbarcato dall’Egitto un insetto che le sta sterminando: ci accorgeremo infatti che circa l’80 per cento delle palme è stato abbattuto e, quelle che restano, non godono certo di buona salute. Le foglie bruciate di queste splendide piante testimoniano una lenta ma inesorabile decadenza della specie: scopriremo infatti che l’allarme è mondiale e che il rischio di estinzione di questo splendido albero, è dietro l’angolo.

La sensazione nel percorrere le strade della Sicilia sud-occidentale costiera è quella di essere più vicini di quello che effettivamente si è, all’Africa: case basse, con mattoni in terracotta, intonaci cadenti e mura screpolate, strade polverose ed asfalto irregolare mangiato dal sole cocente ci scorrono accanto e sotto le ruote.In meno di un ora siamo a Mazara, il nostro cicerone ci fornisce una scassata auto a noleggio e ci indica la strada per quella che, per una quindicina di giorni, sarà la nostra casa. La raggiungiamo non senza difficoltà, girando per strade a fondo cieco e vicoli che portano nel nulla, adeguandoci immediatamente al particolare modo che qui hanno di guidare (dettato anche dalla scarsa presenza di segnaletica), dotandoci di una buona dose di arroganza automobilistica e facendo ampio uso del clacson, strumento indispensabile per avvisare che si sta per imboccare un incrocio con tutta l’intenzione di impegnarlo per primi.

Alla fine ci piazziamo in via Bixio, in quello che sarà il nostro campo base da cui pianificare il viaggio e da cui partire alla scoperta di questo lembo d’Italia adagiato nel mediterraneo, con il suo carico di storia millenaria e travagliata.

Se svola!

Sicilia-fisica

Meta: Mazara del Vallo, dove faremo campo base per esplorare la terra siciliana.

Partenza in nottata con volo low-cost da Bologna.

Alè!

Edit: QUI il racconto (incompleto) delle varie tappe effettuate.

Dubrovnik, Mostar, Sarajevo ed ancora Trst

Trieste – Italia

Ho dovuto rientrare anticipatamente. Sulla strada del ritorno ho giocato a nascondino con Giove Pluvio: l’antico dio delle saette e della pioggia mi ha sorpreso ad una quarantina di chilometri da Rijeka, costringendomi a rinunciare all’ultima tappa che mi ero prefissato e che era stata anche la prima di questo ciclo di posts: Bale.

Zeus (Giove) tramutatosi in pioggia dorata, ama Danae (Klimt, olio su tela)

Saluto Dubrovnik guardandola per l’ultima volta dalla collina che le sta alle spalle. Il sole cocente della tarda e limpida mattinata accende di un vivace candore le mura della città che emerge imponente dal mare blu cobalto con i suoi tetti rossi ed i suoi campanili. Indimenticabile.

Ripercorro a ritroso la strada che da Dubrovnik porta a Metkovic, cittadina al confine con la Bosnia nella Dalmazia del Sud. La dogana è di una tristezza assoluta: due container, circondati da betoniere e macchinari per il rifacimento del manto stradale, ospitano i doganieri croati e bosniaci. Ed è proprio uno dei militari bosniaci che pensa bene di chiedermi, oltre al passaporto, i documenti della moto. Niente di strano: i documenti sono sotto il sellino; il problema è che devo disfare gran parte del bagaglio per raggiungerli. Ci metto un quarto d’ora, vestito (da bravo motociclista) come un astronauta, sotto un sole bastardo e con un macchinario per la stesura del bitume che sbuffa aria bollente e puzzolente accanto a me, prima di essere di nuovo pronto per riprendere il cammino.

Inizia l’avventura bosniaca. Percorro pochi chilometri e già mi sono chiare un paio di cose. La prima è che qui l’islam è una realtà radicata. Ogni piccolo centro abitato ha la sua moschea ed a volte vedi minareti e campanili sfidarsi nell’accarezzare il cielo l’uno accanto all’altro. La seconda è che la ricostruzione post-bellica è ben lungi dal suo completamento: se è vero che quando si ricostruisce dopo un conflitto,le prime opere ad essere affrontate sono quelle infrastrutturali, la Bosnia Herzegovina in questo è ancora piuttosto indietro. Spesso alle strade manca il primo strato di asfaltatura e, là dove è presente, è così segnato da farmi sentire le ruote della moto incanalarsi nelle spaccature. Questi segni hanno un aspetto così regolare da avermi fatto pensare che derivino dal passaggio dei pesanti cingolati che, verosimilmente, scorrazzavano per quelle strade durante la terribile guerra serbo-bosniaca. La segnaletica orizzontale, poi, è quasi completamente assente. Grazie a questo, ho assistito ai sorpassi più spettacolari (e pericolosi) della mia vita.

Il paesaggio che mi si offre alla vista è, qualche chilometro dopo il confine e per una cinquantina di chilometri, quantomeno desolante: attorno a me brulle colline riarse dal sole e piccoli paesi fantasma con case sparse a macchia di leopardo in ampie conche simili a catini. E’ così fino a Mostar.

Il tempo stringe e così decido di fare solo una passeggiata nel centro storico della cittadina martire del conflitto balcanico. Entro nella città evitando buche, cantieri, vecchi camion che mi sputano addosso il loro carburante diesel mal combusto e impegnando di prepotenza incroci con semafori rigorosamente spenti. E’ un martedì di settembre inoltrato ed il turismo sembra essersi preso una pausa. Case basse, con tetti di pietra levigata, costeggiano strade in acciotolato irregolare. Fa un caldo porco e gli addetti ai numerosi negozietti e locali mi guardano di sfuggita, sbuffando e cercando refrigerio sventolando un fazzoletto o un foglio di carta. Una ragazzina, in inglese, mi segnala un ristorantino dove potrei rifocillarmi. “I don’t need to eat” le rispondo mentendo e sorridendo.

Mi perdo per vicoli e viuzze fino a trovarmi ai piedi del famigerato ponte , lo Stari Most che, oltre a dare il nome alla città, ne è simbolo ed anima. Non mi perderò qui nel rivangarne la storia e le peripezie di cui questo incredibile manufatto è stato testimone e vittima. Ma voglio sottolineare come questo monumento sia, più di ogni altro in Europa, metafora di una necessaria unione dei popoli al di là di religioni, nazionalismi e credo politici.

Lo Stari Mos prima e subito dopo la guerra nei balcani

Lo Stari Most prima e subito dopo la guerra dei Balcani

E via di nuovo, su questa strada assolata ed irregolare che, subito dopo Mostar, cambia nei paesaggi. Da qui in poi costeggerà, fino quasi a Sarajevo, le acque del Neretva che, per lunghi tratti, hanno un incredibile colore verde smeraldo, originato forse dal riflesso delle boscose montagne che, intanto, sono andate a sostituirsi alle bruciacchiate colline di qualche chilometro prima..

Guidare per queste strade è piuttosto faticoso ed i quasi duecentocinquanta chilometri percorsi dal mattino (ed intanto ho superato quota mille da Trieste) mi pesano parecchio. Quando scendo dalla moto, dopo aver trovato non senza difficoltà uno degli hotel tra i più economici tra quelli segnalati nella mia guida, biascico qualche parola in inglese maccheronico alla reception, accetto la stanza che mi propongono, mi faccio una doccia e mi infilo tra le coltri…tra gli ultimi pensieri, il fatto che avrei pagato la stanza (ampia e pulitissima) 23 euro a notte…e che compreso nel prezzo avrei avuto la facoltà di usare la sauna ed una attrezzatissima palestra…

Dopo una dormita di undici ore suonate, sono pronto per Sarajevo. Il mio albergo è vicino all’aeroporto a 5 o 6 chilometri dal centro. Per arrivarvi devo percorrere quello che è conosciuto come il “viale dei cecchini”: la lunga strada attorniata dalle colline che spesso gli abitanti dovevano percorrere alla ricerca di cibo e acqua, sotto la continua minaccia delle armi nemiche. L’umanità fuori dall’albergo mi colpisce subito; c’è un mercatino fatto di piccoli prefabbricati e la stazione del tram: zingari e venditori ambulanti, ragazzine eccessivamente truccate ed altre con il velo, mendicanti e quelli che sembrano essere uomini d’affari (o mafiosi). Poco più in là un enorme piazza con decine di locali tutti uguali, con musica dance anni ottanta e ragazzini in jeans che chiacchierano e ridono e si baciano con ragazzine in minigonna.

Il centro storico è un gioiellino con case in pietra e legno, strade in pietra rossa, moschee con altissimi minareti e la cattedrale cattolica, imponente ed austera. Ci sono un sacco di negozi di artigianato, principalmente di pelle e gioielleria, ristorantini tipici in cui assaporerò piatti veramente notevoli. Ci sono poi i cevabzinica ed i buregdzinica, ovvero i chioschi di cevapcici e burek, ribattezzati spesso “fast food”.

Minareto e torre

Minareto e torre a Sarajevo

Alla sera assisterò, per la prima volta nella mia vita, ad una funzione islamica (in parte tenuta all’aperto per mancanza di posto all’interno). Gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Quello che mi ha colpito ed affascinato delle donne bosniache di fede musulmana, è quello che qui in occidente è una delle “pietre dello scandalo” nella questione islamica: il velo. Il tipo di velo che in maggioranza queste donne portano, è quello adatto a coprire orecchie, nuca e capelli: l’hijab. Ma se da una parte è sicuramente usato come segno di rispetto e devozione al loro dio, dall’altro queste donne sono consapevoli che, nella vita di relazione, quest’obbligo può prendere la forma di “accessorio”: non credo di aver visto un velo uguale ad un altro per forma, colore o modo di indossarlo. E tutti erano perfettamente intonati agli abiti ed al leggero trucco che tutte le donne portavano; caste ma affascinanti. Non voglio qui aprire un dibattito sul velo, ma solo portare la mia testimonianza su quello che ho visto in quel paese in un determinato periodo storico: una semplice consuetudine.

Mi sono trattenuto a Sarajevo fino a tardi ed ho trovato quello che, secondo la mia guida, doveva essere uno dei più frequentati locali notturni…infatti vi trovo solo un rubicondo ed anziano oste che mi dice che il mercoledì è un giorno un po’ sfigato, ma che l’indomani ci sarebbe stato un concerto. Parliamo un po’ e, quando gli chiedo della guerra, gli leggo negli occhi e nella voce all’improvviso divenuta più greve, la paura vissuta in quei giorni. Alla fine mi dà alcuni consigli per l’indomani (giorno che dedicherò ai musei) e ci salutiamo.

Il giorno seguente visito solo il museo nazionale: trovo chiusi quello del tunnel e quello storico. Il museo sorge in un palazzo neoromanico perfettamente ristrutturato e che stona decisamente con i palazzoni circostanti di fattura sovietica, crivellati di colpi. Alcune parti del museo sono chiuse al pubblico ed è molto interessante, anche se limitata, la parte dedicata all’etnografia ed alla storia della regione dell’800.

Dopo un pomeriggio di riposo, scendo in città per godermi il concerto di musica bosniaca al locale che avevo visitato il giorno prima, poi qualche ballo al ritmo della dance anni ’80 (che qui sembra andare molto di moda), con qualche ragazzina che mi chiede, incuriosita, come si facciano i dreadlocks. Ed è già tempo di preparare i borsoni sul mio Transalp per il viaggio di ritorno. L’ultima immagine che ho di Sarajevo è quella di un giovane zingaro che guarda affascinato la mia moto mentre la preparo. In questi giorni nella città balcanica, quando mi perdevo in stretti vicoli o strade a fondo cieco, o quando chiedevo informazioni a giovani o adolescenti, tutti si offrivano di accompagnarmi di buon grado, fino alla mia meta. E mi chiedevano del mezzo: di che marca fosse, che potenza avesse. Sostenevano di non aver mai visto una moto così. Ed alla fine mi salutavano ringraziandomi per il passaggio…

Calcolo di arrivare, partendo alle 10.30, nei dintorni di Zara, o magari più a Nord, verso le 18. Ma non ho fatto i conti con le strade della Bosnia: Per quattro volte il traffico si blocca. La prima per una frana, la seconda per uno sciopero, la terza per un ingorgo, la quarta per…un film!

Il blocco causato dallo sciopero avrei potuto aggirarlo prima (come poi farò per ritrovarmi imbottigliato di nuovo) ma, giunto con agilità alla testa dell’ingorgo, decido di capire il perchè dell’agitazione. Parlo con qualcuno dei poco più di cento dimostranti, e mi dicono che sono sei mesi che i padroni non li pagano. Ci sono giovani ed anziani, uomini e donne. Quello che li accomuna sono la pelle bruciata dal sole ed il volto scavato dalla fatica e dagli stenti. Ma si legge la dignità, nei loro occhi. La dignità e la determinazione. Spero siano state sufficienti, alla fine, per ottenere quel minimo diritto che si chiama salario.

Dopo un’ora a solidarizzare con i manifestanti, cambio strada pensando di allungarla, stradario alla mano, solo di una quindicina di chilometri. Ma i chilometri diventano 50 poichè il ponte segnalato, in realtà, non esiste. Di questi 50 chilometri almeno 20 sono rappresentati da strade sterrate a tratti piuttosto impegnative. In uno di questi tratti si forma un ingorgo che mi porta via un’altra mezz’ora di sole. Per rientrare infine sulla strada principale, devo attraversare un ponte sulla Neretva lungo un centinaio di metri, ad un unica corsia a doppio senso di marcia, e con la carreggiata fatta in lastroni di metallo traballanti. Un’esperienza unica.

Dopo un ennesima interruzione causata da una troupe cinematografica, mi lancio a manetta verso la costa croata. Nel pomeriggio riesco a fare un bagno in una spiaggetta vicino a Makarska che già avevo sperimentato e poi a continuare verso Nord. Mi fermerò solo alle 21, una cinquantina di chilometri a nord di split, dove pianterò la tenda senza tirarla. Ma a mezzanotte esatta mi sveglio per il tichettio della pioggia; ed è così che mi ritrovo a piantar picchetti sotto l’acquazzone canticchiando “tanti auguri a me”… 😛

E poi altri chilometri, la pioggia, il vento e la sgradevole visione di un Guzzi California capottato e dei poliziotti che guardano in fondo alla scarpata adiacente.

E poi…più nulla…Trieste. :°

Nota1: Le immagini di questa serie di posts (tranne quello relativo a Vienna) sono tratte dal web. Essendo io un inguaribile retrogrado, avevo con me solo la mia fedele e rigorosamente analogica contax. Appena possibile svilupperò le foto, le scannerizzerò e creerò un album in questo blog.

Nota2: Nonostante le nostre informazioni siano false, non le garantiamo.

Dubrovnik

Sarajevo – Bosnia Herzegovina

Dopo aver lasciato sotto le ruote della mia moto piu’ di 1000 chilometri di strada, eccomi piazzato in un piccolo internet caffe’ della capitale bosniaca per un breve riassunto di cio’ che mi sono lasciato alle spalle in questi giorni di viaggio.

Ero rimasto a markaska…da questa amena cittadina della costa croata sono partito senza troppi rimpianti. Meta: dubrovnik. La strada per arrivarci e’ a dir poco spettacolare. Simile alla strada qvarnerina, si differenzia principalmente per una vegetazione molto piu’ lussureggiante. Inaspettatamente, poi, la strada si tuffa all’interno, e mi trovo proiettato in mezzo a colline lussureggianti, a costeggiare dei piccoli laghi azzurri e placidi e ad attraversare la Neretva, il fiume che al sud taglia in due la Bosnia. Ed in bosnia, per qualche chilometro, ci capito pure: dubrovnik e’ divisa dal resto della Croazia da una sottile striscia di territorio bosniaco che si affaccia sul mare.

Ma eccola qui dubrovnik: rimane il rito della ricerca di un campeggio. Il tempo di una doccia e sono di nuovo sulla mia muletta, finalmente alleggerita dell’ingombrante carico da campeggiatore, per raggiungere la citta’ vecchia. Entro da una porta secondaria da cui, pochi metri dopo, mi ritrovo davanti ad una stretta scalinata che scende verso il viale principale, una cinquantina di metri piu’ in basso.

La luce del tramonto inonda il viale gremito di turisti rumorosi ed eccessivamente dediti all’uso del deodorante. Ma neanche questa massa informe riesce a togliere la magia della luce del tramonto che si riflette sul candido acciotolato in marmo e sui palazzi in marmo e pietra carsica che se ne stanno li’, carichi di storia e testimoni di storie in una citta’ che ha nel mare il suo cuore pulsante. Basta uscire dalle zone piu’ battute dal turismo per sentire l’odore del mare, per percepirne la presenza anche se non lo vedi.

Giro cosi per la citta’ fino a tardi, incuriosito, leggendo la storia della fontana di onofrio, degli assedi turchi, delle piccole chiese e dei monasteri, delle mura imponenti e candide, che il giorno dopo sarei andato a visitare. Il tempo passa e dopo una cena frugale, non avendo incontrato nessuno decido di rientrare verso il mio accampamento quando, sulla gradinata che mi porterebbe all’esterno delle mura, vedo una ragazza con in braccio un gattino, mi avvicino (incuriosito dal gattino, non dalla ragazza eh! 😛 ) ed iniziamo a parlare (con la ragazza, non con il gattino! 😛 ). Americana dell’oregon, ingegnere elettronico, per un attimo ci ritroviamo a fissarci negli occhi…ma arrivano i suoi amici che la portano via…bhe e’ stato per lo meno un occasione per sfoderare il mio oramai arruginito inglese…

Il giorno seguente mi concedo un po’ di mare nell’amena spiaggia del campeggio, poi di nuovo in citta’: un ora per il giro delle mura, ad ammirare il mare che la circonda su tre lati ed i tetti rossi ed i campanili che svettano al suo interno. Quindi di nuovo a cazzeggio tra i stretti vicoli dell’abitato. In serata, ai piedi della fontana di onofrio, noto una bellissima ragazza che fuma voluttuoisamente una sigaretta. E’ lei a chiedermi di parlare: e’ una tipa problematica, con quei problemi che hanno a che fare con il mio lavoro. Chiacchieriamo un bel po’ e ci diamo appuntamento per il giorno dopo, in serata, ai piedi della stessa fontana.

Il mio ultimo giorno a dubrovnik inizia pigramente: caffe’, amaca, musica nelle orecchie, letture fantascientifiche, pranzo a scrocco assieme ad una coppia di pensionati ultrasettantenni italiani campermuniti miei vicini. Poi via, alla ricerca di una spiaggia degna…secondo la mia fedele guida a sud di dubrovnik ne avrei trovata una il cui nome non ricordo…infatti, seguendo le indicazioni fornitemi ne trovo un altra che poi scopriro’ chiamarsi “Sveti Jakov”. Sempre a sud della citta’, vi si arriva scendendo un centinaio di gradini lungo la parete di una scarpata. Sul fondo di questa, una spiaggetta di sabbia e sassi, il mare cristallino che, a pochi metri dalla riva, diventa immediatamente profondo e blu. Davanti a me l’isola lussureggiante che si profila gia’ nell’orizzonte di dubrovnik e, poco piu’ in la’, le mura bianche e possenti della citta’. E cosi’ mi crogiolo al sole per un paio d’ore, con una pausa nel vicino ristorantino per una birra ghiacciata e con un micio in braccio che decise che ero il posto piu’ comodo dove schiacciare un pisolino.

Alla sera poi, di nuovo a dubrovnik per una cena ed una passeggiata con l’amica croata. Uno scambio di indirizzi ed un frettoloso arrivederci;in campeggio, con la mente gia’ proiettata verso il prosieguo del mio viaggio, scrivo un po’ di filosofia e mi addormento come un sasso.

Ora i paesaggi, i profumi, i colori cambiano rapidamente di nuovo attorno a me. Sono gia’ sulla strada per Sarajevo.


enea papà

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