Alle spalle della vivace città di Trapani, si erge una collina rocciosa che raggiunge e supera quota 700m. La stretta strada che sale ripida per una dozzina di chilometri, mette a dura prova il motore dell’opel corsa nera dal tetto bruciacchiato che abbiamo in dotazione. Probabilmente i 160 mila chilometri che leggiamo sul contachilometri, si fanno sentire; ma proprio quando la lancetta del termostato sta per toccare la “zona rossa” del quadrante, arriviamo alle porte di Erice.
Il borgo medioevale (ma già abitato nell’antichità) giace placido su questa aspra collina. In questi giorni di fine maggio il turismo è praticamente assente, e bighellonare a piedi scalzi per le irte viuzze lastricate ora con acciottolato irregolare ricavato da pietre arrotondate ora da lunghe pietre piatte e ciottoli, è qualche cosa di speciale.
Saliamo così, un po’ alla cieca, osservando divertiti le vivaci targhette in porcellana decorata che si trovano su ogni portone, compreso quello della stazione dei carabinieri, e respirando a pieni polmoni l’aria sottile e fresca. Ammiriamo patii e giardini interni fioriti e curatissimi e ci soffermiamo a fare qualche foto alle, anche qui, innumerevoli chiese (qualcuna eretta dal sempre presente conte Ruggero). Arrivati in cima entriamo in un giardino a terrazze sulla cui sommità si erge, proprio in cima alla collina, il castello di Venere le cui torri candide poggiano le fondamenta ai bordi di una profonda scarpata e svettano nel cielo azzurro. Ai piedi del castello il belvedere è uno di quei spettacoli che non ti aspetti: sotto di noi, la Sicilia.
Lo sguardo abbraccia la costa da Custonaci a San Vito lo Capo, e la sensazione che si ha in una giornata così limpida e tersa, è quella di essere un marinaio sulla coffa di un alto, altissimo albero maestro. Da mozzare il fiato.
Restiamo così, rapiti dal panorama per una mezz’oretta, consumando il pranzo al sacco d’ordinanza: pane e salame.
Ridiscendendo notiamo come la Sicilia abbia il potere di riempirti gli occhi: ogni curva è una sorpresa, ogni strada imboccata ha qualche cosa da offrirti e da farti scoprire. Lo notiamo ulteriormente in questa stessa giornata quando, sbagliando strada, ci perdiamo nell’entroterra occidentale siculo, tra Segesta e Mazara. Imbocchiamo una via secondaria, probabilmente una strada provinciale: attorno a noi scorrono prima paesaggi aspri e collinosi, costellati da paesi che si aggrappano ai fianchi dei rilievi sorgendo da macchie boschive di un verde vivace e brillante; poi i declivi si fanno più dolci ma senza perdere la loro imponenza. Qui, a perdita d’occhio, si alternano immensi campi di ulivi, di vite e di grano. Mai, durante questo viaggio quasi sospeso nel tempo, incrociamo una macchina: solo qualche trattore guidato da un contadino dalla pelle scurita dal sole, ci fa capire che siamo ancora nel XXI secolo. Approssimandoci a Mazara le colline vanno digradando e, negli ultimi 10 chilometri prima di raggiungerla, veniamo accompagnati nel nostro viaggio da una selva di mulini per l’energia eolica. Il futuro, qui, tocca il passato e con lui si fonde.
Siamo di nuovo nella città che ci fa da base: alla pace della campagna sicula si sostituisce il caos della viabilità cittadina. Ma abbiamo riempito gli occhi fino quasi a saziarli…per oggi.
Il giorno successivo avremmo voluto dedicarlo al cazzeggio da spiaggia. Sperimentiamo la vicina spiaggia di Porto Palo di Menfi, invasa da surfers con l’aquilone e, come molte altre spiagge meridionali della Sicilia, dagli scarabei. Dopo un paio d’ore, però, un po’ perchè perseguitati da un fastidioso vento freddo, un po’ perchè annoiati, decidiamo di seguire il consiglio della nostra guida che segnala i “ruderi di Gibellina”, paese distrutto dal terribile terremoto del 1968.
Ci incamminiamo così verso la nostra nuova meta, percorrendo una cinquantina di chilometri tra colture di ulivi, vite, grano e pomodori, in un saliscendi di colline che si fanno sempre più aspre imponenti e rocciose.
Al posto di Gibellina già da lontano si scorge, sul fianco di una collina, un’imponente colata di cemento opera di Alberto Burri: occupa lo spazio che, prima del ‘968, vedeva sorgere il paese. E’ formata da imponenti basamenti di cemento, intercalati da stretti sentieri in salita: seguendoli si arriva in cima alla collina e con lo sguardo si abbraccia la valle del Belice, costellata da ruderi che, da allora, sono rimasti come subito dopo il terremoto, a testimonianza del dramma vissuto da quelle terre.
Dopo una breve sosta al monumento, risaliamo in macchina, seguendo la strada che serpeggia per la valle percorrendola lentamente, osservando gli scheletri delle case colpite dal sisma. Ad un certo punto notiamo un’indicazione: “ruderi di Poggioreale”. La guida non li cita ma decidiamo comunque di raggiungerli. E qui la sorpresa: parcheggiata la macchina in un ampio piazzale, ci troviamo di fronte ad un cancello; dietro di esso il paese, esattamente come doveva essere il giorno dopo il terremoto (eccezion fatta per la vegetazione che, negli anni, ha riconquistato i suoi spazi).
Oltrepassiamo il cancello in silenzio, gli occhi sgranati dallo stupore; percorriamo la via principale che taglia in due la cittadina fino alla piazza centrale. Attorno a noi abitazioni, chiese, la scuola con la sua biblioteca, il comune, piccole fabbriche con i macchinari ancora intatti, il pronto soccorso ed il teatro. Dove possibile entriamo a visitare gli ambienti un tempo teatro di storie, passioni, rancori, amore ed amicizie. Dentro la scuola troviamo ancora documenti contabili e liste di nomi. Nella piazza centrale, sulla sinistra, una lunga scalinata conduce a quella che doveva essere la chiesa votata al santo protettore del paese: rimane in piedi il campanile e, tra i detriti, lo scheletro di qualche colonna e di qualche arco sui quali si scorge ancora il colore di un affresco. Sotto, il paese, con i suoi tetti rossi sfondati, i suoi palazzi sventrati; ed il silenzio, che domina la valle.
Passa un ora, due ore, in cui ci sentiamo sospesi nel tempo, quasi prigionieri di una fotografia ingiallita. Notiamo come un posto del genere dovrebbe essere visitato obbligatoriamente da politici e palazzinari; da tutta la gente responsabile di costruire con la sabbia su zone terremotate.
Ci allontaniamo stupiti e sgomenti, imboccando una strada a caso tra le colline: non sappiamo più dove siamo quando incrociamo un pastore con il suo gregge, il volto scavato dalle rughe e la pelle scurita dal sole, a cui chiediamo informazioni. Gentilissimo e sorridente ci dà le informazioni di cui abbiamo bisogno. Poi iniziamo a parlare, gli raccontiamo della nostra visita ai ruderi e lui, con gli occhi velati al ricordo di quel giorno, il giorno del terremoto a Poggioreale, ci racconta la sua esperienza; era una domenica, dopo la messa ci si era messi a tavola quando arrivò la prima scossa. Tutti gli abitanti del paese scapparono ed alla notte, il paese crollò rimanendo come lo avevamo visto noi. Ancora un brivido a quel racconto ed un saluto caloroso per tornare sulla strada verso quella che, ancora per una decina di giorni, chiameremo casa.
Commenti recenti