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Dubrovnik, Mostar, Sarajevo ed ancora Trst

Trieste – Italia

Ho dovuto rientrare anticipatamente. Sulla strada del ritorno ho giocato a nascondino con Giove Pluvio: l’antico dio delle saette e della pioggia mi ha sorpreso ad una quarantina di chilometri da Rijeka, costringendomi a rinunciare all’ultima tappa che mi ero prefissato e che era stata anche la prima di questo ciclo di posts: Bale.

Zeus (Giove) tramutatosi in pioggia dorata, ama Danae (Klimt, olio su tela)

Saluto Dubrovnik guardandola per l’ultima volta dalla collina che le sta alle spalle. Il sole cocente della tarda e limpida mattinata accende di un vivace candore le mura della città che emerge imponente dal mare blu cobalto con i suoi tetti rossi ed i suoi campanili. Indimenticabile.

Ripercorro a ritroso la strada che da Dubrovnik porta a Metkovic, cittadina al confine con la Bosnia nella Dalmazia del Sud. La dogana è di una tristezza assoluta: due container, circondati da betoniere e macchinari per il rifacimento del manto stradale, ospitano i doganieri croati e bosniaci. Ed è proprio uno dei militari bosniaci che pensa bene di chiedermi, oltre al passaporto, i documenti della moto. Niente di strano: i documenti sono sotto il sellino; il problema è che devo disfare gran parte del bagaglio per raggiungerli. Ci metto un quarto d’ora, vestito (da bravo motociclista) come un astronauta, sotto un sole bastardo e con un macchinario per la stesura del bitume che sbuffa aria bollente e puzzolente accanto a me, prima di essere di nuovo pronto per riprendere il cammino.

Inizia l’avventura bosniaca. Percorro pochi chilometri e già mi sono chiare un paio di cose. La prima è che qui l’islam è una realtà radicata. Ogni piccolo centro abitato ha la sua moschea ed a volte vedi minareti e campanili sfidarsi nell’accarezzare il cielo l’uno accanto all’altro. La seconda è che la ricostruzione post-bellica è ben lungi dal suo completamento: se è vero che quando si ricostruisce dopo un conflitto,le prime opere ad essere affrontate sono quelle infrastrutturali, la Bosnia Herzegovina in questo è ancora piuttosto indietro. Spesso alle strade manca il primo strato di asfaltatura e, là dove è presente, è così segnato da farmi sentire le ruote della moto incanalarsi nelle spaccature. Questi segni hanno un aspetto così regolare da avermi fatto pensare che derivino dal passaggio dei pesanti cingolati che, verosimilmente, scorrazzavano per quelle strade durante la terribile guerra serbo-bosniaca. La segnaletica orizzontale, poi, è quasi completamente assente. Grazie a questo, ho assistito ai sorpassi più spettacolari (e pericolosi) della mia vita.

Il paesaggio che mi si offre alla vista è, qualche chilometro dopo il confine e per una cinquantina di chilometri, quantomeno desolante: attorno a me brulle colline riarse dal sole e piccoli paesi fantasma con case sparse a macchia di leopardo in ampie conche simili a catini. E’ così fino a Mostar.

Il tempo stringe e così decido di fare solo una passeggiata nel centro storico della cittadina martire del conflitto balcanico. Entro nella città evitando buche, cantieri, vecchi camion che mi sputano addosso il loro carburante diesel mal combusto e impegnando di prepotenza incroci con semafori rigorosamente spenti. E’ un martedì di settembre inoltrato ed il turismo sembra essersi preso una pausa. Case basse, con tetti di pietra levigata, costeggiano strade in acciotolato irregolare. Fa un caldo porco e gli addetti ai numerosi negozietti e locali mi guardano di sfuggita, sbuffando e cercando refrigerio sventolando un fazzoletto o un foglio di carta. Una ragazzina, in inglese, mi segnala un ristorantino dove potrei rifocillarmi. “I don’t need to eat” le rispondo mentendo e sorridendo.

Mi perdo per vicoli e viuzze fino a trovarmi ai piedi del famigerato ponte , lo Stari Most che, oltre a dare il nome alla città, ne è simbolo ed anima. Non mi perderò qui nel rivangarne la storia e le peripezie di cui questo incredibile manufatto è stato testimone e vittima. Ma voglio sottolineare come questo monumento sia, più di ogni altro in Europa, metafora di una necessaria unione dei popoli al di là di religioni, nazionalismi e credo politici.

Lo Stari Mos prima e subito dopo la guerra nei balcani

Lo Stari Most prima e subito dopo la guerra dei Balcani

E via di nuovo, su questa strada assolata ed irregolare che, subito dopo Mostar, cambia nei paesaggi. Da qui in poi costeggerà, fino quasi a Sarajevo, le acque del Neretva che, per lunghi tratti, hanno un incredibile colore verde smeraldo, originato forse dal riflesso delle boscose montagne che, intanto, sono andate a sostituirsi alle bruciacchiate colline di qualche chilometro prima..

Guidare per queste strade è piuttosto faticoso ed i quasi duecentocinquanta chilometri percorsi dal mattino (ed intanto ho superato quota mille da Trieste) mi pesano parecchio. Quando scendo dalla moto, dopo aver trovato non senza difficoltà uno degli hotel tra i più economici tra quelli segnalati nella mia guida, biascico qualche parola in inglese maccheronico alla reception, accetto la stanza che mi propongono, mi faccio una doccia e mi infilo tra le coltri…tra gli ultimi pensieri, il fatto che avrei pagato la stanza (ampia e pulitissima) 23 euro a notte…e che compreso nel prezzo avrei avuto la facoltà di usare la sauna ed una attrezzatissima palestra…

Dopo una dormita di undici ore suonate, sono pronto per Sarajevo. Il mio albergo è vicino all’aeroporto a 5 o 6 chilometri dal centro. Per arrivarvi devo percorrere quello che è conosciuto come il “viale dei cecchini”: la lunga strada attorniata dalle colline che spesso gli abitanti dovevano percorrere alla ricerca di cibo e acqua, sotto la continua minaccia delle armi nemiche. L’umanità fuori dall’albergo mi colpisce subito; c’è un mercatino fatto di piccoli prefabbricati e la stazione del tram: zingari e venditori ambulanti, ragazzine eccessivamente truccate ed altre con il velo, mendicanti e quelli che sembrano essere uomini d’affari (o mafiosi). Poco più in là un enorme piazza con decine di locali tutti uguali, con musica dance anni ottanta e ragazzini in jeans che chiacchierano e ridono e si baciano con ragazzine in minigonna.

Il centro storico è un gioiellino con case in pietra e legno, strade in pietra rossa, moschee con altissimi minareti e la cattedrale cattolica, imponente ed austera. Ci sono un sacco di negozi di artigianato, principalmente di pelle e gioielleria, ristorantini tipici in cui assaporerò piatti veramente notevoli. Ci sono poi i cevabzinica ed i buregdzinica, ovvero i chioschi di cevapcici e burek, ribattezzati spesso “fast food”.

Minareto e torre

Minareto e torre a Sarajevo

Alla sera assisterò, per la prima volta nella mia vita, ad una funzione islamica (in parte tenuta all’aperto per mancanza di posto all’interno). Gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Quello che mi ha colpito ed affascinato delle donne bosniache di fede musulmana, è quello che qui in occidente è una delle “pietre dello scandalo” nella questione islamica: il velo. Il tipo di velo che in maggioranza queste donne portano, è quello adatto a coprire orecchie, nuca e capelli: l’hijab. Ma se da una parte è sicuramente usato come segno di rispetto e devozione al loro dio, dall’altro queste donne sono consapevoli che, nella vita di relazione, quest’obbligo può prendere la forma di “accessorio”: non credo di aver visto un velo uguale ad un altro per forma, colore o modo di indossarlo. E tutti erano perfettamente intonati agli abiti ed al leggero trucco che tutte le donne portavano; caste ma affascinanti. Non voglio qui aprire un dibattito sul velo, ma solo portare la mia testimonianza su quello che ho visto in quel paese in un determinato periodo storico: una semplice consuetudine.

Mi sono trattenuto a Sarajevo fino a tardi ed ho trovato quello che, secondo la mia guida, doveva essere uno dei più frequentati locali notturni…infatti vi trovo solo un rubicondo ed anziano oste che mi dice che il mercoledì è un giorno un po’ sfigato, ma che l’indomani ci sarebbe stato un concerto. Parliamo un po’ e, quando gli chiedo della guerra, gli leggo negli occhi e nella voce all’improvviso divenuta più greve, la paura vissuta in quei giorni. Alla fine mi dà alcuni consigli per l’indomani (giorno che dedicherò ai musei) e ci salutiamo.

Il giorno seguente visito solo il museo nazionale: trovo chiusi quello del tunnel e quello storico. Il museo sorge in un palazzo neoromanico perfettamente ristrutturato e che stona decisamente con i palazzoni circostanti di fattura sovietica, crivellati di colpi. Alcune parti del museo sono chiuse al pubblico ed è molto interessante, anche se limitata, la parte dedicata all’etnografia ed alla storia della regione dell’800.

Dopo un pomeriggio di riposo, scendo in città per godermi il concerto di musica bosniaca al locale che avevo visitato il giorno prima, poi qualche ballo al ritmo della dance anni ’80 (che qui sembra andare molto di moda), con qualche ragazzina che mi chiede, incuriosita, come si facciano i dreadlocks. Ed è già tempo di preparare i borsoni sul mio Transalp per il viaggio di ritorno. L’ultima immagine che ho di Sarajevo è quella di un giovane zingaro che guarda affascinato la mia moto mentre la preparo. In questi giorni nella città balcanica, quando mi perdevo in stretti vicoli o strade a fondo cieco, o quando chiedevo informazioni a giovani o adolescenti, tutti si offrivano di accompagnarmi di buon grado, fino alla mia meta. E mi chiedevano del mezzo: di che marca fosse, che potenza avesse. Sostenevano di non aver mai visto una moto così. Ed alla fine mi salutavano ringraziandomi per il passaggio…

Calcolo di arrivare, partendo alle 10.30, nei dintorni di Zara, o magari più a Nord, verso le 18. Ma non ho fatto i conti con le strade della Bosnia: Per quattro volte il traffico si blocca. La prima per una frana, la seconda per uno sciopero, la terza per un ingorgo, la quarta per…un film!

Il blocco causato dallo sciopero avrei potuto aggirarlo prima (come poi farò per ritrovarmi imbottigliato di nuovo) ma, giunto con agilità alla testa dell’ingorgo, decido di capire il perchè dell’agitazione. Parlo con qualcuno dei poco più di cento dimostranti, e mi dicono che sono sei mesi che i padroni non li pagano. Ci sono giovani ed anziani, uomini e donne. Quello che li accomuna sono la pelle bruciata dal sole ed il volto scavato dalla fatica e dagli stenti. Ma si legge la dignità, nei loro occhi. La dignità e la determinazione. Spero siano state sufficienti, alla fine, per ottenere quel minimo diritto che si chiama salario.

Dopo un’ora a solidarizzare con i manifestanti, cambio strada pensando di allungarla, stradario alla mano, solo di una quindicina di chilometri. Ma i chilometri diventano 50 poichè il ponte segnalato, in realtà, non esiste. Di questi 50 chilometri almeno 20 sono rappresentati da strade sterrate a tratti piuttosto impegnative. In uno di questi tratti si forma un ingorgo che mi porta via un’altra mezz’ora di sole. Per rientrare infine sulla strada principale, devo attraversare un ponte sulla Neretva lungo un centinaio di metri, ad un unica corsia a doppio senso di marcia, e con la carreggiata fatta in lastroni di metallo traballanti. Un’esperienza unica.

Dopo un ennesima interruzione causata da una troupe cinematografica, mi lancio a manetta verso la costa croata. Nel pomeriggio riesco a fare un bagno in una spiaggetta vicino a Makarska che già avevo sperimentato e poi a continuare verso Nord. Mi fermerò solo alle 21, una cinquantina di chilometri a nord di split, dove pianterò la tenda senza tirarla. Ma a mezzanotte esatta mi sveglio per il tichettio della pioggia; ed è così che mi ritrovo a piantar picchetti sotto l’acquazzone canticchiando “tanti auguri a me”… 😛

E poi altri chilometri, la pioggia, il vento e la sgradevole visione di un Guzzi California capottato e dei poliziotti che guardano in fondo alla scarpata adiacente.

E poi…più nulla…Trieste. :°

Nota1: Le immagini di questa serie di posts (tranne quello relativo a Vienna) sono tratte dal web. Essendo io un inguaribile retrogrado, avevo con me solo la mia fedele e rigorosamente analogica contax. Appena possibile svilupperò le foto, le scannerizzerò e creerò un album in questo blog.

Nota2: Nonostante le nostre informazioni siano false, non le garantiamo.

Forsi son mi che no so usarlo…

Google maps…

Catena della moto nuova, sacche pronte con tutto il necessario per campeggiare, tenda e amaca che attendono di essere montate…a poche ore dalla partenza, terminati i preparativi, smanetto un po’ su google maps per studiare il percorso da seguire. Ecco, secondo i tipi di google, le strade che dovrei affrontare…

Mha!

Trieste-Dubrovnik per masochisti

Non sono riuscito in nessun modo a razionalizzare il percorso…Provate poi a richiedere informazioni sulla tratta Dubrovnik-Sarajevo; secondo googlemaps:

Indicazioni stradali per Sarajevo, Bosnia ed Erzegovina 1.488 km – circa 1 giorno 5 ore…

O.O

Che abbiano già condotto l’esperimento e si siano verificati dei paradossi spazio temporali?

…alla fine ho dovuto usare viamichelin… 😛

edit: QUI i diari.


enea papà

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